Con quasi 250mila morti all’anno, pari a circa un terzo di tutti i decessi, in una buona percentuale evitabili, le malattie cardiovascolari nel loro complesso si confermano al primo posto tra i big killer anche in Italia. Preoccupante è peraltro la fotografia del nostro Paese sotto il profilo degli stili di vita che possono concorrere a determinare il rischio cardiovascolare. Una recente indagine della Società Italiana dell’Ipertensione arteriosa (SIIA) in collaborazione con Federfarma ha mostrato che, su circa 50mila nostri connazionali intervistati di entrambi i sessi e di tutte le età, il 60% non fa abitualmente alcuna attività fisica, eccezion fatta per gli spostamenti casa-lavoro, il 25% fuma, il 30% circa non fa alcuna attenzione al consumo di sale e il 20% infine non segue alcun regime dietetico.
Si fa strada quindi l’idea che esista ben poca consapevolezza circa i comportamenti inappropriati in grado di agire in modo sinergico e in senso negativo insieme a un enorme “sommerso” di condizioni cliniche o subliniche fino a determinare prima o poi la manifestazione delle patologie cardiovascolari.
A corredo di tale quadro epidemiologico, non può mancare una valutazione dell’impatto anche economico che hanno le condizioni e gli eventi cardiovascolari sul sistema sanitario.
In Italia, la spesa annuale pro-capite per le malattie cardiovascolari si attesta sui 726 euro.
Nel computo, i farmaci rappresentano solo l’11%; i ricoveri, da soli, incidono per il 28%; le prestazioni ambulatoriali, fanno il 4%; le prestazioni domiciliari un altro 4%; l’istituzionalizzazione, infine, il 5%.
Su questo tema, un documento redatto dall’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari (ALTEMS) ha mostrato che prevenzione e cure adeguate potrebbero abbattere del 5% i ricoveri legati a malattie cardiovascolari e, quindi, assicurare al Servizio Sanitario Nazionale un risparmio pari a 170 milioni di euro.
Considerati questi numeri, che raccontano anche le difficoltà che s’incontrano nel contrastare la malattia cardiovascolare conclamata, si affaccia nella comunità medico-scientifica la necessità d’intervenire sul continuum cardiovascolare, ovvero sull’insieme delle condizioni prodromiche all’insorgenza di eventi cardiovascolari fatali e non fatali, valutando attentamente il quadro dei fattori di rischio individuali.
A tale proposito, tradizionalmente si è soliti suddividere i fattori di rischio cardiovascolare in maggiori e minori.
Secondo gli algoritmi Systematic COronary Risk Evaluation rivisto dalla Società Europea di Caridologia (SCORE2) e SCORE2-OP (relativo cioè anziani dai 70 anni in poi), tra i fattori maggiori di rischio si annoverano età, genere, fumo di sigaretta, colesterolemia non-HDL e pressione arteriosa sistolica.
I fattori di rischio cardiovascolare minori non vengono considerati per il calcolo del rischio cardiovascolare, ma a un’attenta analisi risultano comunque rilevanti.
Lo storico studio Fourier sulla prevenzione secondaria ha mostrato per esempio una differenza in termini di rischio cardiovascolare attribuibile a trigliceridemia (valore di soglia di 57 mg/dL) in soggetti con sindrome metabolica rispetto a soggetti senza questa condizione.
Allo stesso modo, lo studio italiano URRAH ha mostrato che il rischio di infarto miocardico fatale era significativamente maggiore nelle donne con valori di uricemia >5,26 mg/dL rispetto a quelle con valori <5,26 mg/dL. Pertanto, anche variabili non valorizzate ai fini della valutazione del rischio cardiovascolare svolgono un ruolo significativo, per quanto inferiore ai fattori di rischio maggiori. Infine, in letteratura si trovano evidenze del fatto che la correzione rigorosa degli stili di vita possa quintuplicare il beneficio esercitato dalla terapia ipolipemizzante nei confronti della mortalità cardiovascolare prima dei 65 anni e raddoppiarlo nei soggetti over 65.
Seguendo l’idea di un continuum fisiopatologico che va dall’esposizione ai fattori rischio, passando per lo sviluppo di danno d’organo per arrivare infine agli eventi cardio- e cerebrovascolari, i tempi sono maturi per superare il concetto di una suddivisione della prevenzione cardiovascolare tra primaria e secondaria. In altre parole, le più recenti acquisizioni in campo medico-scientifico sostengono un modello in cui il paziente viene posto al centro di un ragionamento clinico con un’attenta definizione del suo profilo di rischio cardiovascolare globale, superando la falsa dicotomia basata sul fatto che il soggetto abbia o non abbia già avuto un evento cardiovascolare (distinzione che comunque viene mantenuta anche nel presente testo per riferirsi agli studi clinici del passato).
Se si considera dunque la vasta popolazione che non ha mai avuto eventi cardiovascolari, essa comprenderà presumibilmente alcuni soggetti con albero vascolare in buone condizioni così come altri con processo aterosclerotico avanzato, potenzialmente prossimo cioè a dare una manifestazione più o meno grave.
Occorre sottolineare inoltre il cosiddetto “paradosso della prevenzione”
Tradizionalmente, i più ampi e intensi sforzi in campo preventivo vengono dedicati alle popolazioni ad alto rischio, in cui la frequenza di eventi è più elevata nel breve-medio termine. Ora, per quanto siano efficaci questi sforzi a livello individuale, a livello di popolazione il vantaggio è minimo, perché la riduzione in termini di numeri assoluti è limitata. Il grosso degli eventi si verifica invece nella popolazione a basso rischio, esclusa dai programmi di prevenzione.
Da quanto illustrato fin qui, emerge con ancora più forza il concetto di continuum cardiovascolare. Per illustrarlo in modo esemplare, basti considerare la fisiopatologia dell’aterosclerosi: essa dipende com’è noto dai livelli di colesterolo LDL.
Per ogni incremento di tali livelli, l’aumento proporzionale dell’accumulo di LDL nella parete vascolare è limitato. Con l’andare del tempo, tuttavia, l’esposizione continua all’LDL può determinare la formazione di una lesione aterosclerotica, con una velocità direttamente correlata ai suoi livelli circolanti. Il carico aterosclerotico di ciascun soggetto, in altre parole, sarà dipendente sia dai livelli di LDL sia dalla durata dell’esposizione.
Lo stesso discorso, in termini di livello e durate dell’esposizione, si può applicare a tutti i fattori di rischio cardiovascolare. È per questo che tutte le linee guida internazionali per la prevenzione cardiovascolare definiscano apposite carte del rischio, basate sull’individuazione precoce delle alterazioni strutturali e funzionali dell’apparato cardiovascolare e renale, ma che contemplano anche i cosiddetti modificatori del rischio.
In un quadro complessivo di ampia variabilità del rischio cardiovascolare s’inserisce la terapia antiaggregante a base di acido acetilsalicilico (ASA).
Gli studi Hypertension Optimal Treatment (HOT) e Physician Health Study (PHS), dedicati alla prevenzione primaria, hanno mostrato che l’assunzione di ASA offriva una maggiore protezione cardiovascolare in quei soggetti che, pur in assenza di pregressi eventi cardiovascolari, presentavano un più elevato profilo di rischio (nello specifico, associato una moderata compromissione della funzione renale nello studio HOT, a un più elevato di livelli circolanti di proteina C Reattiva nello studio PHS , e in ogni caso nei soggetti più anziani).
Tale profilo di efficacia trova conferma nelle metanalisi di studi di prevenzione primaria, pur con tutti i limiti dovuti all’eterogeneità delle popolazioni considerate e dei regimi farmacologici adottati: i dati mostrano una riduzione significativa degli eventi vascolari maggiori e degli eventi coronarici maggiori in corso di trattamento con ASA, con una riduzione di mortalità per tutte le cause, quantificabile intorno al 6%, nel sottogruppo di pazienti diabetici.
Considerando proprio la popolazione dei soggetti diabetici, l’uso di ASA in prevenzione primaria è raccomandato nei pazienti asintomatici, purché in presenza di una chiara evidenza strumentale, oppure di marcatori di patologia aterosclerotica coronarica, carotidea o agli arti inferiori, indipendentemente da età, durata di malattia e altri fattori di rischio. Di particolare significato a tale riguardo sono referti di imaging ecografico o di risonanza magnetica che documentino significative stenosi carotidee, femorali, coronariche, o un punteggio di calcio coronarico elevato o un indice caviglia-braccio ridotto (<0,9) – tutte condizioni, queste, che aumentano il livello di rischio cardiovascolare tanto da rendere il paziente che ne è portatore eleggibile alla prevenzione con ASA anche nel contesto della prevenzione primaria.
Nei soggetti diabetici senza una storia di malattia cardiovascolare aterosclerotica sintomatica o procedure di rivascolarizzazione, l’uso diASA (75-100 mg/die) può essere considerato per prevenire un primo evento cardiovascolare severo, in assenza di chiare controindicazioni.
Per quanto riguarda la sicurezza, va da sé che, soprattutto in prevenzione primaria, i benefici vadano commisurati ai rischi: a tal proposito, va sottolineato che i primi studi di prevenzione primaria non mostrano un aumento del rischio emorragico nei pazienti trattati con ASA rispetto a quelli assegnati a placebo.
Per quanto concerne invece i soggetti che hanno già avuto un evento cardiovascolare l’uso di ASA, il trattamento con ASA è tutt’ora il trattamento di elezione nella gestione della fase acuta degli eventi cardiovascolari in combinazione con un inibitore di P2Y12 – inizialmente per un periodo di tempo della durata variabile in relazione al profilo di rischio trombotico ed emorragico del paziente e successivamente in monoterapia per un trattamento long-lasting.
In conclusione, a oltre cento anni dalla sua scoperta l’acido acetilsalicilico a basse dosi rappresenta un punto di riferimento nell’armamentario farmacologico per la prevenzione cardiovascolare.
Il suo utilizzo è infatti raccomandato dalle linee guida internazionali nei pazienti con un pregresso evento cardiovascolare o cerebrovascolare acuto. Per la prevenzione di un primo evento cardiovascolare, l’assunzione di ASA è attualmente raccomandata nei pazienti diabetici con un profilo di rischio cardiovascolare alto o molto alto.
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