Accade piuttosto di frequente che, nell’illustrare lo stato dell’arte della giurisprudenza in tema di responsabilità medica, si ricevano commenti piuttosto aspri da parte dei sanitari. Nella maggior parte dei casi, emerge infatti una sostanziale posizione di favore nei confronti del paziente, in ragione della natura del bene in gioco, la salute, e della posizione di garanzia conseguentemente ricoperta dal sanitario nell’ambito del rapporto obbligatorio. È innegabile che, in questi ultimi vent’anni, nell’ambito di un progetto di c.d. ingegneria sociale, la Giurisprudenza abbia cercato di evitare che i danni correlati ai trattamenti sanitari rimanessero “anonimi”, ossia senza un colpevole e quindi senza un risarcimento.
Per questo, attraverso il sistema della responsabilità civile si è scelto di ricorrere a «meccanismi processuali» agevolati e di introdurre maggiori tutele in favore del paziente, al fine di traslare i danni sul soggetto che fosse meglio in grado di assorbirlo economicamente, così da ridistribuirne i costi, anche con l’ausilio del meccanismo assicurativo. Questa scelta ha tuttavia condotto ad una crisi del sistema in termini di sostenibilità, rendendo necessario un intervento per ribilanciare i rapporti tra le parti. Per questo, nel 2017, con la Legge Gelli-Bianco, il Legislatore ha voluto riequilibrare la posizione degli esercenti la professione sanitaria, alleggerendola, ponendo sulle strutture il peso maggiore di un eventuale contenzioso, introducendo oneri più stringenti anche a carico dei pazienti.
In quest’ottica, può quindi essere interessante richiamare alcune pronunce in cui la condotta del paziente è risultata rilevante ai fini di limitare o, addirittura, escludere la responsabilità dei sanitari. In merito, si segnala la recente sentenza del 28/04/2025, n.11180, in cui la Suprema Corte ha escluso la responsabilità del medico nel caso in cui, in sede di raccolta della anamnesi nella fase preoperatoria, il paziente abbia omesso -anche in assenza di specifiche richieste del medico- di riferire spontaneamente ai sanitari, delle patologie più gravi di cui il paziente aveva sofferto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il paziente aveva omesso di riferire dell’ischemia cerebrale e della conseguente assunzione prolungata, per oltre un decennio, di farmaci anticoagulanti, circostanza quest’ultima che aveva contribuito al verificarsi di una emorragia nel corso dell’intervento, con conseguenze dannogene permanenti per lo stesso paziente.
Sul punto, la Suprema Corte ha ritenuto il paziente l’unico ed esclusivo responsabile delle conseguenze correlate alle carenze informative derivanti dalla mancata predisposizione di un adeguato drenaggio per contrastare l’emorragia poi effettivamente verificatasi, ritenendo, in particolare, che, “al fine di realizzare compiutamente e al meglio il rapporto tra paziente e medico chirurgo, l'indagine preoperatoria deve essere orientata nel senso che il paziente è tenuto, quantomeno, a non omettere ma a riferire le più gravi patologie di cui abbia sofferto e possa, per il resto, con riferimento ad altri esantemi, genericamente riferire di non avere avuto patologie di carattere minore”.
Riguardo alla tematica dell’anamnesi, per completezza, si segnala anche un orientamento completamente opposto affermato dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza n. 26426 del 20/11/2020. In tale pronuncia, nel cassare con rinvio alla Corte D’Appello di Firenze, la Suprema Corte ha infatti escluso una corresponsabilità del paziente, nell’ipotesi in cui questi ometta alcune informazioni nel corso dell'anamnesi, non avendo però ricevuto specifiche richieste in tal senso dal medico. Nella fattispecie trattata dagli Ermellini, è stata esclusa la responsabilità di due genitori che durante la raccolta dell'anamnesi, seppur consapevoli di essere entrambi portatori di sani di talassemia, avevano omesso di dichiarare la presenza di microcitemia tra i collaterali della donna incinta, circostanza che aveva poi condotto alla nascita di due gemelli con talassemia maior.
Secondo la Corte, tra gli obblighi dei due genitori non rientrava anche quello di fornire tali informazioni, senza espressa richiesta del sanitario, non avendo gli stessi specifiche cognizioni di scienza medica e non potendo quindi sopperire a mancanze investigative del professionista. Come meglio precisato nella pronuncia in esame, l'attività di raccolta anamnestica non deve essere considerata come un flusso unidirezionale di informazioni che il paziente fornisce al medico e che questo deve semplicemente recepire ed interpretare. A prescindere dalla collaborazione del paziente, il medico deve infatti, in ogni caso, condurre l’anamnesi, sulla base del dato clinico, rivolgendo al paziente tutti i quesiti necessari per la formulazione di una corretta diagnosi (Cfr. Trib. di Pavia, sent. n. 63 del 18/01/2022 su Cass. civ., ord. n. 26426 del 20.11.2020). Per queste ragioni, saranno dunque la struttura e il medico, che vogliano sostenere una correlazione tra l’errata diagnosi e il difetto di informazioni fornite in sede di anamnesi dal paziente, a dover allegare e provare di aver regolarmente e diligentemente condotto l'anamnesi, formulando al paziente le domande pertinenti alla luce del caso concreto.
Sempre in tema di applicabilità del concorso di colpa al paziente, ai sensi del comma 1 dell’art. 1227 c.c., si segnala anche la sentenza della Cassazione civile del 30/07/2024, n. 21362, riguardante il rifiuto al ricovero ospedaliero che ha poi condotto al decesso del paziente. In tal caso, secondo la Suprema Corte, per poter attribuire profili di colpa anche a carico del paziente, occorre valutare - caso per caso - l’incidenza causale che tale rifiuto ha avuto rispetto alla determinazione dell’exitus.
Perché la condotta del paziente possa escludere o ridurre la responsabilità dei medici, occorre -in particolare- provare che il rifiuto, al pari del consenso, sia stato “informato”, ossia che il paziente abbia ricevuto la necessaria informazione riguardo ai rischi correlati a tale scelta. Solo in questo caso, il rifiuto o il consenso potranno considerarsi espressi validamente (nella fattispecie esaminata dalla sentenza, il paziente non aveva ricevuto una adeguata informazione riguardo al rischio per la propria vita correlato ad un mancato ricovero).
Sempre in tema di rifiuto al trattamento consigliato dal medico da parte del paziente, si segnala anche la sentenza della Cassazione civile dell’11/12/2023 n. 34395, in cui la Corte si è occupata di definire i criteri per l’esclusione della responsabilità del medico, individuando nel rifiuto ingiustificato, rispetto ai rischi e benefici connaturati al trattamento, il presupposto per un concorso di colpa del paziente, questa volta, ai sensi del comma 2 dell’art. 1227 c.c. (che esclude il risarcimento dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare utilizzando l’ordinaria diligenza).
Se, infatti, è incontrovertibile che, ai sensi dell’art. 32 comma 2 della Costituzione, il paziente abbia il diritto (fondamentale) di rifiutare qualsiasi trattamento medico, anche salvavita (come confermato anche di recente dalla Corte Costituzionale, con sentenza del 18/07/2024, n.135), tuttavia, se tale “rifiuto è ingiustificato, perché non correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici se ne potranno e dovranno trarre le conseguenze a mente del discusso concorso colposo del creditore dell'obbligazione risarcitoria (art. 1227 c.c., comma 2)”.
Per escludere la responsabilità del medico, dovrà, in particolare, emergere che il trattamento rifiutato dal paziente, secondo il criterio del più probabilmente che non, avrebbe condotto alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente, in tesi, compiutamente consentito.
A conclusione di tale rassegna, si segnala infine anche la sentenza della Cassazione civile del 06/09/2022, n. 26209, in tema di trasfusioni e consenso.
Nella fattispecie al vaglio degli Ermellini, il paziente aveva prestato il proprio consenso ad un intervento chirurgico con prevedibile rischio emorragico, negando però il consenso all'esecuzione di trasfusioni di sangue in caso di avveramento di tale rischio. Il quesito riguarda quindi il perimetro di manovra del medico e le conseguenze, nell’ipotesi in cui si verifichi effettivamente l’evento emorragico. Secondo la Corte, non può essere ritenuto responsabile il medico che abbia dato seguito alla volontà del paziente di non effettuare la trasfusione, quand’anche questo abbia comportato un nocumento per lo stesso, dovendosi altrimenti integrare una lesione del suo diritto all’autodeterminazione. Naturalmente, in alternativa, il medico può legittimamente rifiutarsi di praticare l'intervento autorizzato, non potendo il paziente esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, come disciplinato dalla Legge n. 219/2017 che, in tema di consenso informato, all’art. 1 commi 5 e 6, prevede espressamente che, “Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, il medico debba prospettagli le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative, essendo comunque tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, andando esente da responsabilità civile o penale.
Il paziente non può infatti “esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”.
Come emerge dunque dalla giurisprudenza esaminata, non sempre le decisioni sono favorevoli al paziente. Ad incidere sull’esito finale della controversia, sono certamente le circostanze concrete e specifiche del singolo caso, a prescindere dai principi di diritto affermati a livello generale. È pertanto sempre importante entrare nel merito delle questioni, analizzando compiutamente l’attività svolta dal sanitario e la condotta tenuta dal paziente. A tal fine, una corretta compilazione della cartella clinica può aiutare il sanitario a ricostruire i fatti, anche a distanza di diversi anni.
Grazie molto chiaro e interessante
La giurisprudenza con le sue leggi ha decretato la fine del lavoro del medico. Fino a quando i medici saranno denunciati, non riusciranno più a fare il loro lavoro. Per salvare l'arte medica il medico dovrebbe rispondere solo per dolo.