Rischio cardiovascolare nei pazienti affetti da artrite reumatoide

Rischio cardiovascolare nei pazienti affetti da artrite reumatoide

L’artrite reumatoide può avere un interessamento extra-articolare e può associarsi a diverse comorbidità che contribuiscono a peggiorare la qualità della vita e aumentare il tasso di mortalità dei soggetti affetti. Le malattie cardiovascolari sono quelle che riducono maggiormente l’aspettativa di vita nei pazienti con artrite reumatoide, rappresentano la principale causa di mortalità nei soggetti affetti e sono responsabili del 39% dei decessi in questa popolazione

L’artrite reumatoide (AR) è una malattia sistemica infiammatoria cronica di natura autoimmune che colpisce prevalentemente le articolazioni ed in particolare le piccole articolazioni di mani e piedi. A livello articolare determina dolore, tumefazione, limitazione del movimento e della funzionalità ma soprattutto può associarsi ad un danno erosivo progressivo che porta ad un alto grado di disabilità.1
L’AR può avere un interessamento extra-articolare e può associarsi a diverse comorbidità che contribuiscono a peggiorare la qualità della vita e aumentare il tasso di mortalità dei soggetti affetti.2 Le malattie cardiovascolari sono quelle che riducono maggiormente l’aspettativa di vita nei pazienti con AR, rappresentano la principale causa di mortalità nei soggetti affetti e sono responsabili del 39% dei decessi in questa popolazione.3-5 L’aumento del rischio di malattie cardiovascolari nei pazienti con AR è dovuto all’effetto combinato e spesso moltiplicativo della predisposizione genetica, dei fattori di rischio cardiovascolari tradizionali e dello stato infiammatorio sistemico.6
Il processo infiammatorio cronico è l’elemento “aggiunto” che determina l’incremento del rischio cardiovascolare che è stato ormai largamente documentato in tutti i pazienti affetti da artriti croniche ma in particolare da AR rispetto alla popolazione generale.7 Questi soggetti hanno infatti un rischio aumentato (dai dati epidemiologici finora pubblicati almeno raddoppiato) di sviluppare malattia coronarica e vasculopatia polidistrettuale che trovano le loro principali manifestazioni cliniche nell’infarto del miocardio (IMA) e nell’ictus e di andare anche più frequentemente incontro ad episodi di fibrillazione atriale e morte improvvisa causata da aritmie.6-8
L’infiammazione ha un effetto negativo sulla parete dei vasi e causa una disfunzione endoteliale che insieme ai fattori di rischio tradizionali (fumo, ipertensione, dislipidemia, diabete, obesità) conducono ad una aterosclerosi accelerata e precoce. L’infiammazione contribuisce inoltre all’instabilità della placca aterosclerotica quando già presente favorendo l’insorgenza di eventi cardiovascolari.
Per questo motivo, una diagnosi precoce della malattia reumatologica ma soprattutto un trattamento adeguato che sia in grado di sopprimere l’infiammazione rappresenta la chiave per ridurre la progressione del danno radiologico dell’AR ma anche per ridurre il rischio di eventi cardiovascolari maggiori (MACE).7

Epidemiologia dell’AR e delle malattie cardiovascolari

L’AR è la più comune tra le artriti croniche infiammatorie e ha una prevalenza che va dallo 0,3% all’1% a seconda delle casistiche considerate. A livello globale, l’1% della popolazione mondiale è affetto da AR.9 In Italia l’AR interessa circa lo 0,7% della popolazione, pari a circa 400.000 persone.
L’incidenza è di 6 nuovi casi ogni 10.000 individui all’anno.
Negli ultimi anni, l’età media di esordio è aumentata, con un picco tra i 50 e i 57 anni (dati ISTAT). La malattia è più comune nelle donne rispetto agli uomini, con un rapporto di 3-4 a 1, e colpisce soprattutto persone tra i 40 e i 60 anni. Tuttavia, può insorgere a qualsiasi età, inclusa l’infanzia e la vecchiaia.7
Le malattie cardiovascolari costituiscono la principale causa di mortalità a livello globale con 17,9 milioni di morti all’anno, che rappresentano il 32% di tutti i decessi.7
Nonostante l’incidenza delle malattie cardiovascolari in Europa sia in diminuzione, in Italia si è osservato un incremento di queste patologie negli ultimi cinque anni. Questo trend è evidente anche nella popolazione affetta da AR, in cui, come già detto, le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di mortalità. (Fig.1)

slide-cause-morte-26maggio2023.svg Figura 1. Figura 1. Crialesi R. Report Cause di morte 2020. ISTAT10.
https://www.istat.it/wp-content/uploads/2023/05/Slide-cause-morte-26maggio2023.pdf

Fattori di rischio cardiovascolari tradizionali e non nell’AR

Secondo le Linee Guida ESC 2021 sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari, l’AR è un fattore di rischio cardiovascolare indipendente per lo sviluppo di sindrome coronarica acuta e malattia cardiovascolare aterosclerotica (ASCVD). L’aumento del rischio è rilevante (+ 50%) ed è presente anche nelle fasi subcliniche della malattia o nei pazienti con forme early e sintomi da meno di un anno.11
Di conseguenza nel paziente con AR possiamo riconoscere fattori di rischio cardiovascolare tradizionali, comuni alla popolazione generale, ma anche fattori di rischio non tradizionali, strettamente legati ai meccanismi infiammatori e immunitari tipici della malattia.7,12 (Fig.2)

grf_fattori_ar.svg Figura 2. Fattori di rischio tradizionali e non nella AR.
[Mod. da Karakasis P et al. Curr Probl Cardiolol, 202312]

I fattori di rischio tradizionali, come il sesso, l’età, l’esposizione al fumo di sigaretta, l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito di tipo 2, l’ipercolesterolemia, l’obesità e la sedentarietà, possono contribuire all’aumento del rischio cardiovascolare nei pazienti con AR, proprio come accade nella popolazione generale.3,13
Alcuni di questi fattori agiscono in maniera sinergica e amplificano il rischio di andare incontro ad eventi cardiovascolari maggiori.
Ad esempio è noto il forte legame tra il fumo di tabacco e gli eventi cardiovascolari sia nella popolazione generale che nei pazienti con AR con un aumento dell’insorgenza di patologie cardiovascolari e della mortalità ad essi associata intorno al 50%. Non dobbiamo dimenticare però che il fumo ha un ruolo importante in primis nella patogenesi della AR aumentando la citrullinazione delle proteine e favorendo di conseguenza lo sviluppo della malattia stessa. I fumatori inoltre presentano una maggiore progressione della malattia rispetto ai non-fumatori e hanno una risposta inferiore alla terapia con DMARDs.13
Anche l’ipertensione arteriosa, che è la comorbilità associata più comune nei pazienti con AR, si è dimostrata predittiva di eventi cardiovascolari come infarto miocardico e cardiopatia ischemica.8 Lo sviluppo di ipertensione (o il peggioramento del suo controllo) può essere dovuto anche al concomitante uso di anti-infiammatori non steroidei e cortisonici. Questi farmaci vengono spesso assunti anche in maniera autonoma dai pazienti per la gestione del dolore e possono determinare l’insorgenza o il mancato controllo dell’ipertensione.7-8
Al contrario è stato dimostrato come il metotrexato che rappresenta il farmaco àncora nella gestione dell’AR e l’esercizio fisico regolare proteggano i pazienti con AR dallo sviluppo di ipertensione.8
Più complessa risulta la relazione tra profilo lipidico e rischio cardiovascolare. Contrariamente a quanto accade nella popolazione generale, nella AR la relazione tra i livelli sierici dei lipidi e il rischio cardiovascolare non è lineare. Nei pazienti con AR e malattia attiva infatti generalmente sono presenti livelli più bassi di colesterolo totale, LDL e HDL e livelli di trigliceridi più alti rispetto ai soggetti sani a fronte di un numero di eventi cardiovascolari maggiori. In generale, il controllo dell’attività della malattia determina delle variazioni significative del profilo lipidico. Nella valutazione del profilo di rischio cardiovascolare l’assetto lipidico dovrebbe pertanto essere valutato in una fase di controllo della malattia per avere una determinazione più corretta.
L’aumento del rischio cardiovascolare nei pazienti con AR non può essere però spiegato esclusivamente con la presenza dei fattori di rischio cardiovascolari tradizionali. Sebbene in circa la metà dei casi infatti questi fattori contribuiscano all’incremento del rischio, il loro controllo non è sufficiente a ridurre il rischio globale facendo sottintendere la presenza di fattori di rischio strettamente correlati alla malattia.7
Come già detto in precedenza, l’infiammazione cronica è uno dei principali fattori non tradizionali nella patogenesi delle malattie cardiovascolari associate a tutte le patologie reumatiche infiammatorie ed in particolare all’AR. Questo ruolo è confermato anche nella popolazione generale, dove si osservano correlazioni tra i livelli sierici di proteina C-reattiva (PCR) e rischio cardiovascolare ma è ancor più vero nell’AR dove l’aumento della PCR ma anche l’alta attività di malattia misurata con il DAS28 o con altri indici compositi correlano con lo sviluppo di eventi cardiovascolari maggiori. Un segnale indiretto del ruolo dell’infiammazione nella genesi del rischio cardiovascolare si può ricavare dal fatto che il controllo della malattia con farmaci immunomodulanti sia in grado di ridurre anche l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori.14
Un altro fattore, strettamente legato alla patologia, che influisce sul rischio cardiovascolare è la presenza di anticorpi anticitrullina che, se presenti e soprattutto quando ad alto titolo, si associano ad un rischio aumentato di eventi cardiovascolari.15-16
Ulteriori fattori di rischio correlati alla malattia sono una durata della malattia superiore ai 10 anni e l’uso di glucocorticoidi (GCs) sistemici e/o di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) che sono ora riconosciuti come predittori di malattie cardiovascolari al pari dei fattori di rischio tradizionali ma che ancora una volta sono espressione del danno indotto dall’infiammazione e dallo scarso controllo della malattia.15-16

Valutazione del rischio cardiovascolare nei pazienti con artrite reumatoide

I grandi studi epidemiologici hanno individuato il ruolo causale dei fattori di rischio nelle malattie cardiovascolari e hanno permesso lo sviluppo di strategie di prevenzione. L’individuazione dei soggetti candidabili all’applicazione di misure preventive è tuttavia subordinata alla definizione dell’entità del rischio a cui il soggetto stesso è esposto, possibile mediante la stima del rischio cardiovascolare globale assoluto. Questo rappresenta un indicatore che consente di valutare la probabilità di sviluppare un evento cardiovascolare maggiore negli anni successivi, in base ai fattori di rischio presenti. Tale rischio è stimabile grazie a modelli, sviluppati a partire da dati di grandi studi osservazionali.
Il primo strumento sviluppato, il Framingham Heart Score, è stato derivato mediante analisi multivariate da dati raccolti durante lo studio epidemiologico condotto nella cittadina di Framingham, Massachusetts, a partire dal 1948, fornendo la prima applicazione pratica per la stima del rischio cardiovascolare.17 Lo strumento è sviluppato per permettere di definire il rischio a 10 anni sulla base dei fattori di rischio tradizionali, quali genere, fumo di sigaretta, livelli di colesterolo e pressione arteriosa.
Nel contesto italiano, in maniera analoga a quanto prodotto grazie ai dati dello studio Framingham, a partire dal 1988 e con il contributo dell’1% del Fondo Sanitario Nazionale, l’Istituto Superiore di Sanità e il Ministero della Salute hanno promosso il Progetto Cuore, finalizzato inizialmente allo studio dell’epidemiologia e della prevenzione delle malattie ischemiche cardiache.18 Nell’ambito di questa iniziativa e grazie all’utilizzo dei dati di follow-up di 17 coorti arruolate tra la metà degli anni ’80 e ’90, sono stati sviluppati degli algoritmi per la stima del rischio cardiovascolare individuale riferibili alla popolazione italiana, le cui tabelle e un calcolatore sono disponibili online. Gli strumenti disponibili grazie al Progetto Cuore permettono di stimare la probabilità di andare incontro a un primo evento cardiovascolare maggiore (infarto del miocardio o ictus) nei 10 anni successivi, in base a sei fattori di rischio: sesso, diabete, abitudine al fumo, età, pressione arteriosa sistolica e colesterolemia. L’algoritmo del Progetto Cuore permette la stratificazione in soggetti a rischio basso (<5%), moderato (5-19%) o alto (≥20%).18 (Fig.3)

grf_survey.svg Figura 3. Carta di rischio cardiovascolare Progetto CUORE
[Mod. da https://www.cuore.iss.it/valutazione/donne-non]

L’utilizzo di strumenti validati per il calcolo del rischio cardiovascolare individuale è supportato da numerose raccomandazioni internazionali. In particolare, nelle linee guida della ESC (European Society of Cardiology) del 2016, l’algoritmo Systematic Coronary Risk Evaluation (SCORE) veniva proposto per la stima del rischio di morte per cause cardiovascolari a 10 anni. Tuttavia, il carico totale della malattia cardiovascolare aterosclerotica è meglio descritto dalla combinazione della morbilità (in particolare infarto miocardico e ictus non fatali) con la mortalità cardiovascolare.11
In linea con questa considerazione, le linee guida ESC 2021 supportano l’utilizzo della versione aggiornata dell’algoritmo SCORE, lo SCORE 2, che permette di stimare il rischio di eventi fatali e non a 10 anni in soggetti senza eventi precedenti.19
Lo SCORE 2 tiene conto della provenienza geografica del paziente, con l’Italia collocata tra le regioni a rischio intermedio, e stratifica in base all’età, includendo anche la possibilità di stima oltre i 70 anni.20 L’algoritmo permette di definire il rischio nelle categorie di “moderato-basso”, “alto” e “molto alto”, con cut-off variabili in funzione alla fascia di età, permettendo di evitare il sottotrattamento nei giovani e il sovratrattamento negli anziani. (Tab.1) tab_categoriedirischio.svg Tabella 1. Categorie di rischio per malattia cardiovascolare in base all’età secondo i modelli SCORE2 e SCORE2-OP in soggetti apparentemente sani.
[Mod. da Visseren FLJ, et al. Eur Heart J. 202111]

Oltre agli strumenti per il calcolo del rischio, esistono altri score, il cui utilizzo è meno diffuso in Italia, quali il Reynolds Risk Score21 e il QRISK, che è giunto alla sua terza versione22 e che include tra i fattori di rischio la diagnosi di artrite reumatoide. Gli strumenti per la stima del rischio cardiovascolare individuale presentano alcune limitazioni, in particolare l’inclusione di alcuni fattori di rischio come la variabile dicotomica, non permettendo di differenziare in classi diverse all’interno della stessa condizione. Con particolare riferimento all’ambito reumatologico, inoltre, la diagnosi di artrite reumatoide, che implica un incremento del rischio, non viene presa in considerazione dalla maggior parte degli algoritmi disponibili. Nel contesto specifico dell’artrite reumatoide l’eccesso di rischio cardiovascolare è solo in parte spiegato dai fattori di rischio tradizionali e i modelli di stima maggiormente diffusi potrebbero non definire correttamente l’entità del problema. Grazie all’utilizzo dei dati della coorte CORRONA, arruolata negli Stati Uniti, è stato sviluppato e validato nel 2015 uno score di rischio cardiovascolare dedicato ai pazienti con artrite reumatoide, l’Expanded Risk Score - Rheumatoid Arthritis (ERS-RA). In questo caso il calcolo del rischio di eventi cardiovascolari a 10 anni è basato non soltanto sui fattori di rischio tradizionali, ma anche sulla durata di malattia, sulla sua attività, sulla disabilità funzionale e sull’uso di glucocorticoidi.23
Questo strumento tiene quindi in considerazione non soltanto la presenza della malattia, ma anche elementi malattia-specifici che agiscono nel modulare il rischio cardiovascolare.
In linea con le raccomandazioni delle società scientifiche di ambito cardiologico, quelle dell’European Alliance of Associations for Rheumatology (EULAR) per la gestione del rischio cardiovascolare nei pazienti con artrite del 2015 raccomandano la stima del rischio cardiovascolare con strumenti dedicati, supportando l’adozione di algoritmi sviluppati sulla popolazione locale, quando disponibili. In assenza di strumenti locali, viene proposto l’utilizzo dello SCORE.24
In ogni caso, qualora il modello utilizzato non includa la presenza di artrite reumatoide tra le variabili considerate, viene raccomandata la moltiplicazione del rischio per 1.5.
Nonostante la crescente attenzione alla tematica del rischio cardiovascolare nei pazienti affetti da artrite, una recente indagine ha mostrato che circa un terzo dei reumatologi italiani non valuta abitualmente il rischio cardiovascolare nella pratica clinica quotidiana, nonostante la chiara indicazione da parte delle raccomandazioni EULAR.25 Da qui l’importanza di fornire uno strumento semplice, pratico e rapido per valutare il rischio cardiovascolare durante le visite reumatologiche.
Il gruppo di studio CORDIS ha sviluppato un algoritmo per la valutazione del rischio cardiovascolare nei pazienti italiani con artrite reumatoide, tenendo in considerazione le raccomandazioni EULAR e le evidenze disponibili nell’ambito specifico della malattia. In linea con le raccomandazioni EULAR, l’algoritmo del Progetto Cuore, sviluppato sulla popolazione italiana, è stato consigliato per la stima del rischio cardiovascolare. La frequenza con cui il rischio viene valutato deve però essere definita in base a fattori individuali e malattia-specifici, quali la presenza di malattia attiva con fattori prognostici negativi (positività per gli anticorpi anti peptide ciclico citrullinato, la presenza di erosioni ossee, una durata di malattia superiore a 10 anni e la presenza di disabilità funzionale), l’utilizzo di glucocorticoidi, FANS e il fallimento di multiple linee terapeutiche e le comorbidità (diabete, ipertensione arteriosa e dislipidemia). In presenza di questi fattori, il rischio cardiovascolare deve essere stimato regolarmente, mentre nei soggetti senza queste caratteristiche la valutazione dovrebbe avere luogo ogni 5 anni, in caso di malattia attiva, di cambiamento del profilo di rischio cardiovascolare o di modifiche terapeutiche.15
La gestione del rischio cardiovascolare in questa popolazione passa non solo attraverso la sua regolare ridefinizione, ma anche attraverso la promozione di cambiamento dello stile di vita (cessazione del fumo di sigaretta, effettuazione di regolare attività fisica), la ricerca del controllo ottimale dell’attività di malattia, e la valutazione dell’aderenza al trattamento per la malattia.

Il ruolo del reumatologo nel counseling e il team multidisciplinare

Molti pazienti con artrite reumatoide non sono pienamente consapevoli dell’esistenza di un eccesso di rischio cardiovascolare legato alla malattia e della sua entità. In particolare, meno della metà dei pazienti sa che la malattia costituisce un fattore di rischio cardiovascolare indipendente, e la tendenza a sottovalutare questo fenomeno è maggiore nelle categorie a rischio più elevato, come fumatori e anziani. La scarsa consapevolezza riguardo a questi aspetti sottolinea la rilevanza del ruolo educativo, che richiede una comunicazione efficace, da parte degli operatori sanitari, inclusi i reumatologi. Le raccomandazioni EULAR per la gestione del rischio cardiovascolare nei pazienti con artrite includono infatti tra i loro principi fondamentali il ruolo centrale del reumatologo, che è identificata quale figura responsabile della valutazione e della gestione del rischio cardiovascolare in questi pazienti.24
Le informazioni e il supporto dovrebbero in questo senso coprire vari ambiti, promuovendo ad esempio i cambiamenti dello stile di vita, con la cessazione del fumo e una regolare attività fisica, e spiegando la rilevanza di ottenere un adeguato controllo dell’attività di malattia e di trattare le comorbidità che determinano un incremento del rischio cardiovascolare, come il diabete, l’ipertensione arteriosa e la dislipidemia.
La multidisciplinarietà e l’interdisciplinarietà rappresentano probabilmente le modalità più efficaci per modulare il rischio cardiovascolare nei pazienti con artrite reumatoide, promuovendo la collaborazione di diverse figure professionali mediche (cardiologo, reumatologo) e non (psicologo, infermiere, fisioterapista e nutrizionista) e garantendo un’assistenza completa e personalizzata ai pazienti.
Un approccio multidisciplinare può essere quindi decisivo nel migliorare sia il rischio cardiovascolare che la qualità della vita dei pazienti con artrite reumatoide, garantendo un percorso terapeutico più efficace e personalizzato.7

Trattamento dell’artrite reumatoide e modulazione del rischio cardiovascolare

Misure legate allo stile di vita

Un aspetto fondamentale per la gestione del rischio cardiovascolare nei pazienti con artrite reumatoide è rappresentato dalle misure non farmacologiche, con particolare rilievo delle modifiche dello stile di vita. Queste includono la gestione dello stress e il riposo, la cessazione del fumo, gli interventi sull’alimentazione, che affiancano il trattamento farmacologico.26
La cessazione del fumo di sigaretta dovrebbe essere raccomandata in tutti i pazienti con artrite reumatoide, al fine di ridurre l’eccesso di rischio cardiovascolare ma anche nell’ottica complessiva di gestione della malattia. L’abitudine al fumo, infatti, non solo rappresenta un fattore di rischio cardiovascolare tradizionale, ma implica una minore risposta al trattamento farmacologico per l’artrite, introducendo un ulteriore elemento a incrementare il rischio di eventi cardiovascolari, e una maggiore probabilità di presentare manifestazioni extra-articolari di malattia, in particolare a livello polmonare. Per questi motivi, l’astensione dal fumo dovrebbe essere attivamente promossa in tutti i pazienti fumatori con artrite reumatoide.
Per quanto riguarda gli aspetti legati all’alimentazione, è stato dimostrato che la dieta mediterranea, più ricca di frutta, verdura, legumi, cereali, e pesce ma con meno carne rossa rispetto alle diete occidentali tradizionali, è associata a una riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori nella popolazione generale.26 Nei pazienti con artrite reumatoide il suo effetto positivo potrebbe essere esercitato attraverso un impatto favorevole sull’attività di malattia, non esistono tuttavia evidenze specifiche sull’effetto delle modifiche dietetiche sul rischio cardiovascolare in questa popolazione di pazienti.26
Maggiori evidenze supportano invece l’effetto favorevole di un’attività fisica strutturata, che ha dimostrato di produrre dei benefici sul rischio cardiovascolare nei pazienti con artrite reumatoide a breve e medio termine.27 (Fig.4)

grf_esercizio.svg Figura 4. Attività fisica, esercizio e artrite reumatoide: efficacia, meccanismi e implementazione.
[Mod. da Metsios GS et al. Best Pract Res Clin Rheumatol. 201827]

Terapia farmacologica disease modifying e impatto sul rischio cardiovascolare nell’artrite reumatoide

Il paradigma di trattamento dell’artrite reumatoide ha presentato una notevole evoluzione negli ultimi 30 anni, con l’introduzione dei concetti di diagnosi precoce e di frequente monitoraggio della risposta terapeutica, e con l’istituzione precoce di una terapia con farmaci disease modifying (DMARDs).28
I DMARD si suddividono in DMARD sintetici convenzionali (csDMARD), che includono il metotrexato, la leflunomide, la sulfasalazina e l’idrossiclrochina, DMARDs biologici (bDMARDs), che comprendono i farmaci inibitori del TNFα, gli anti interleuchina-6 (IL-6), rituximab e abatacept, e i DMARDs a target specifico (targeted synthetic, tsDMARDs).
L’approccio terapeutico implica inizialmente l’introduzione di una terapia con csDMARD, e in particolare metorexato, al momento della diagnosi, con la rivalutazione periodica dell’attività di malattia. In caso di mancato raggiungimento della remissione clinica o, almeno, della bassa attività di malattia con un csDMARDs, è possibile considerare l’aggiunta di una terapia di secondo livello con bDMARDs e tsDMARDs.
I csDMARDs e i bDMARDs, hanno dimostrato di esercitare un effetto di riduzione del rischio cardiovascolare,15 tuttavia non è al momento chiaro se tale beneficio derivi principalmente dal controllo efficace dell’infiammazione o se il targeting di specifiche citochine implicate nell’aterosclerosi contribuisca ulteriormente alla riduzione del rischio cardiovascolare.15
È possibile che l’effetto di mitigazione del rischio cardiovascolare implichi entrambi i meccanismi, ma l’impatto netto di ciascuno è di difficile valutazione anche a causa dell’impossibilità di correggere pienamente per tutti i confondenti negli studi clinici.
Sebbene i meccanismi alla base di questo fenomeno non siano ancora pienamente compresi, numerose evidenze supportano l’efficacia dei DMARDs nel ridurre l’eccesso di rischio cardiovascolare in artrite reumatoide.15
Tra i csDMARDs, il metotrexato rappresenta il farmaco per il quale sono disponibili le evidenze più solide. È stato infatti dimostrato che la terapia con metotrexato è in grado di ridurre la mortalità per tutte le cause nei pazienti con artrite reumatoide con una riduzione complessiva della mortalità, pari al 60%, legata in larga misura alla riduzione del 70% della mortalità per cause cardiovascolari.29,30
Inoltre, uno studio retrospettivo di coorte ha valutato l’effetto del metotrexato sul rischio di malattie cardiovascolari utilizzando i dati Medicare 2006-2015 per pazienti con artrite reumatoide in trattamento con farmaci biologici. L’uso concomitante di metotrexato è stato associato a una riduzione del 24% del rischio di eventi cardiovascolari (infarto miocardico, ictus e CVD fatale).31
Esistono anche evidenze dell’impatto sul rischio cardiovascolare anche per alcuni csDMARDs, inclusi la sulfasalazina, la leflunomide, benché di minore solidità, mentre l’idrossiclorchina sembrerebbe esercitare un ruolo favorevole sulle comorbidità, riducendo il rischio di diabete e migliorando il profilo lipidico.
Per quanto anche i csDMARDs abbiano dimostrato la capacità di ridurre il rischio cardiovascolare nei pazienti con artrite reumatoide, sicuramente la classe che esercita un effetto di maggiore portata in questo senso è quella dei bDMARDs. In particolare, la classe degli inibitori del TNFα è quella per la quale sono disponibili maggiori risultati a supporto dell’effetto favorevole sul rischio cardiovascolare. In una meta-analisi del 2015, infatti, questa classe di bDMARDs ha dimostrato la capacità di ridurre del 30% il rischio complessivo di eventi cardiovascolari, con una riduzione significativa del rischio di infarto del miocardio e stroke.32
Tra i restanti bDMARDs non appartenenti alla classe degli inibitori del TNFα, per quanto il numero di studi sia inferiore, in realtà non sembrano emergere differenze di grande portata rispetto alla classe degli inibitori del TNFα. Una meta-analisi del 2020 ha confrontato tocilizumab e abatacept con gli inibitori del TNFα in termini di eventi cardiovascolari maggiori e stroke, senza però evidenziare una differenza significativa.33 Questo dato viene confermato anche da studi basati su banche dati amministrative, che includono anche una piccola popolazione di pazienti trattati con rituximab, dimostrando anche in questo caso l’assenza di una differenza significativa tra categorie di bDMARDs.34
L’impatto dei tsDMARDs, e in particolare degli inibitori delle Janus chinasi (JAKi), è più controverso. I dati del trial post-commercializzazione su tofacitinib ORAL surveillance, che ha suggerito una maggior frequenza di eventi cardiovascolari rispetto ad adalimumab, ha indotto le autorità regolatorie a definire delle limitazioni sull’utilizzo del farmaco in categorie di pazienti a rischio più elevato.35
Successivi studi osservazionali non hanno tuttavia confermato questo risultato, suggerendo una maggiore sicurezza, con un tasso di eventi cardiovascolari maggiori pari a quelli riportati in pazienti trattati con inibitori del TNFα.36 Il reale profilo di sicurezza di questa classe di farmaci e la loro capacità di modulare il rischio cardiovascolare dovrà essere definito in valutazioni a lungo termine.
Sebbene la maggior parte dei farmaci utilizzati per la terapia dell’artrite reumatoide esercitino un effetto favorevole sul rischio cardiovascolare, alcune classi utilizzate a complemento della terapia di fondo hanno un effetto negativo. I glucocorticoidi, infatti, hanno dimostrato di essere associati a una maggiore mortalità nei pazienti con artrite reumatoide, e a una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari.
Un’ulteriore categoria di farmaci sintomatici implicata nell’aumento del rischio cardiovascolare nell’artrite reumatoide è quella dei farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), con un rischio ancora maggiore determinato dagli inibitori selettivi della ciclossigenasi di tipo 2 (COX2).32

Conclusioni

L’artrite reumatoide comporta un significativo aumento del rischio cardiovascolare a causa dell’infiammazione cronica e di fattori di rischio tradizionali e malattia-specifici. Questo rischio non può essere gestito efficacemente solo con l’approccio convenzionale ai fattori CV, applicato in altre popolazioni, ma necessita l’utilizzo di terapie specifiche per l’artrite reumatoide, in modo da controllare l’infiammazione, che rappresenta il fattore di maggiore impatto nel determinarne l’entità.
È fondamentale valutare a più riprese il rischio cardiovascolare nei pazienti con artrite reumatoide, promuovendo interventi combinati su stile di vita, uso dei DMARDs e monitoraggio regolare, in un’ottica di multidisciplinarietà e interdisciplinarietà, per ridurre la morbilità e mortalità cardiovascolare e migliorare la qualità di vita.

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