La tematica relativa all’osservanza delle linee guida da parte del medico, al fine di valutare, ex post, la condotta del sanitario nel caso di contenzioso, ha assunto una rilevanza ancor più decisiva con l’entrata in vigore della L. n. 24/2017 - c.d. Legge Gelli-Bianco.
Tale norma, al comma 1 dell’art. 5, prevede infatti, espressamente, che: «Gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali».
Su queste basi, all’art. 6, la legge introduce addirittura una esimente alla punibilità del medico, in ambito penale, «Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, […] quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
Attraverso i due citati articoli, il Legislatore ha dunque voluto consacrare l’importanza delle linee guida e l’importanza dell’esperienza clinica e scientifica, sebbene nell’ambito ristretto delle sole linee guida c.d. bollinate, ossia di quelle (poche) linee guida pubblicate sul sito del SNLG ed emanate -appunto- dalle Società scientifiche o dalle Associazioni tecnico-scientifiche accreditate presso l’ISS, ai sensi del comma 2 e 3 del richiamato art. 5.
Dal tenore della norma, emerge tuttavia altresì, chiaramente, che la pedissequa osservanza delle linee guida, priva di una specifica valutazione del caso concreto, non esime il medico da eventuali addebiti.
Né le linee guida, né le buone pratiche clinico-assistenziali assurgono infatti a direttive stringenti alle quali il sanitario deve, obbligatoriamente, conformarsi nello svolgimento della propria attività professionale.
Al contrario, vi sono situazioni in cui il medico, proprio per tutelare concretamente la salute del paziente, è tenuto a discostarsi dalle linee guida. In questi casi, è opportuno che il medico annoti le ragioni di tale inosservanza nella documentazione sanitaria, condividendone la scelta anche con il paziente.
Compito del sanitario è dunque quello di individuare le linee-guida aderenti alla fattispecie da trattare, adeguandole alla specificità del caso concreto, con opportuni correttivi ed implementazioni.
Sul punto, anche la Giurisprudenza aveva già espressamente escluso che le linee guida potessero costituire uno “scudo” contro ogni ipotesi di responsabilità, essendo la loro efficacia e forza precettiva, comunque, dipendenti dalla dimostrata "adeguatezza" alle specificità del caso concreto.
Le linee guida rappresentano, d’altro canto, uno strumento di “indirizzo” nel ragionamento del professionista sanitario e nelle decisioni in ambito clinico, ma presuppongono, sempre e comunque, una attenta analisi delle caratteristiche del singolo caso clinico che si è chiamati ad affrontare.
In linea con questa visione il Codice Deontologico della categoria medica che, all’art. 4, nel proclamare l’indipendenza, l’autonomia e la discrezionalità del professionista medico, prescrive che il medico debba tener conto («tiene conto») delle linee guida accreditate da fonti autorevoli ed indipendenti, valutandone l’applicabilità al caso concreto.
Conforme a questa interpretazione anche la Corte di Cassazione che ritiene che il concetto “di libertà nelle scelte terapeutiche del medico, è un valore che non può essere compromesso a nessun livello né disperso per nessuna ragione, pena la degradazione del medico a livello di semplice burocrate, con gravi rischi per la salute di tutti”.
Su queste basi, la Suprema Corte chiarisce infatti che le linee guida, seppur “provenienti da fonti autorevoli e caratterizzate da un elevato livello di scientificità […] pur rappresentando un importante ausilio scientifico, con il quale il medico è tenuto a confrontarsi, non eliminano l’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche, giacché questi è sempre tenuto a prescegliere la migliore soluzione curativa, considerando le circostanze peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente, nel rispetto della volontà di quest’ultimo, al di là delle regole cristallizzate nei protocolli medici” (Cass. penale, sez. IV, sentenza n. 24455 del 22 aprile 2015 e Cass. penale, sez. IV, sentenza n. 35922 del 11 luglio 2012).
Quel che emerge sotto più punti vista è, dunque, che l’adozione automatica delle raccomandazioni delle linee guida, al solo fine di evitare future ripercussioni di natura medico-legale, oltre a rappresentare, in concreto, un atteggiamento di medicina difensiva, non esime il sanitario dalla propria responsabilità.
Ciò detto, le raccomandazioni contenute nelle linee guida costituiscono, in ogni caso, un valido strumento per la valutazione ex post della condotta dei sanitari nei casi di “malpractice”, in quanto offrono al giudice un estrinseco parametro di riferimento, che garantisce maggiore tassatività nella valutazione degli eventuali profili di colpa del sanitario, assicurando inoltre una certa riproducibilità e prevedibilità dei giudizi relativi alla correttezza dell’operato del sanitario.
Secondo la Giurisprudenza, infatti, “proprio attraverso tali precostituite raccomandazioni si hanno parametri tendenzialmente circoscritti per sperimentare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia. Ed è in relazione a quegli ambiti che il medico ha la legittima aspettativa di vedere giudicato il proprio operato, piuttosto che in base ad una norma cautelare legata alla scelta soggettiva, a volte anche estemporanea e scientificamente opinabile, del giudicante. Sempre avendo chiaro che non si tratta di veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto” (Cass. Sezioni Unite, sentenza n. 8770/2018).
Fermi restando questi principi, però, secondo gli stessi Giudici, “nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all’autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente […] Se le ‘linee guida’ […] dovessero rispondere solo a logiche mercantili, il rispetto delle stesse a scapito dell’ammalato non potrebbe costituire per il medico una sorta di salvacondotto, capace di metterlo al riparo da qualsiasi responsabilità, penale e civile, o anche solo morale [...] a nessuno è consentito di anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute [...]” (Cass. penale, sentenza n. 8254/2011).
Alla luce dei diversi ambiti di analisi, appare pertanto evidente che l’operato quotidiano dei medici debba, sempre e comunque, mirare a garantire la sicurezza delle cure, quale parte integrante del diritto alla salute del paziente (cfr. art. 1 L. 24/2017), preservando, nel contempo, anche l’autonomia e l’indipendenza del medico.
Mi sembra corretto